MARENO DI PIAVE (TREVISO)– Quando la poesia nasce dalla realtà per diventare voce e memoria, allora può accadere che un’opera d’arte smetta di essere solo espressione e si trasformi in gesto civile. È il caso della poetessa, scrittrice e traduttrice Yuleisy Cruz Lezcano, che ha dedicato un intenso componimento a Sankinder Singh, l’operaio di origini indiane tragicamente deceduto il 27 giugno alla Ceda di Mareno di Piave, vittima dell’ennesima morte sul luogo di lavoro.
Il cigno di calce
Nel suo contributo, Lezcano dà voce a un dolore collettivo che troppo spesso resta ai margini delle cronache. Il suo testo, dal titolo Il cigno di calce, non è solo un omaggio poetico, ma una vera denuncia civile, un atto d’amore e responsabilità verso chi ha perso la vita sotto il peso del silenzio sociale.
La poesia nasce come gesto di rispetto verso Sankinder Singh, ma vuole anche scuotere le coscienze, non lasciare che l’indifferenza cancelli i nomi, le storie, i sogni di chi ha perso la vita per lavoro.
Il cigno di calce
(A Sankinder Singh)
Dove il ferro canta e la luce
si frantuma in nebbia d’officina,
un uomo diventa pietra
prima che il giorno abbia tempo
di chiudere gli occhi.
Un cigno di calce lo coglie in volo,
nell’eco cieco della vasca.
L’aria di giudizio è dura febbre
che infrange
la traiettoria che nessuno misura.
Il cemento,
con le mani da madre che stringono troppo,
gli cuce addosso
un sudario di polvere.
Sotto il suo petto, l’India
forse bruciava come un canto
teso a mezz’aria.
Tra la fornace del Punjab
e il vino stanco delle colline venete
chi ha acceso questo forno
dove le ore si cuociono vive?
Chi ha versato l’uomo
nella forma del profitto?
Le ruote dentate
lo hanno ignorato,
il tempo non si è fermato.
Solo le mosche,
custodi nere del silenzio,
hanno vegliato il suo corpo
come santi nel margine del nulla.
C’era luce nei suoi occhi,
una luce che odorava di spezie,
una luce che nessuna sirena ha salvato.
Ora riposa
dove nessuno posa più gli occhi:
tra le crepe di un’Italia industriale
che mastica i suoi figli,
senza sapere i loro nomi.
Il lavoro lo ha sepolto in vita,
e lo ha finito in quella morte
che cammina nei sogni dei vivi.
Il dovere di ricordare
Dare voce a chi non può più parlare è un compito etico. In un’Italia che ancora conta centinaia di vittime all’anno sul lavoro, questa poesia è un gesto di denuncia e un atto di resistenza poetica. Perché – come scrive Lezcano – nessuno dovrebbe morire mentre lavora. E ogni morte sul lavoro è una ferita che appartiene a tutti.