Libia, escalation di violenza contro i rifugiati: i sudanesi temono la rotta verso l’Europa
Cresce la tensione in Libia: rifugiati sudanesi aggrediti a Tripoli e Misurata. Aumentano le partenze verso Italia e Grecia.
Tripoli/Misurata — Rifugiati sudanesi che vivono nell’ovest della Libia, in particolare a Tripoli e Misurata, hanno denunciato aggressioni e atti vandalici contro le loro attività commerciali nel contesto di proteste popolari contro i migranti stranieri.
Secondo media libici e sudanesi — tra cui Darfur 24, che cita fonti locali e testimoni a Misurata — manifestanti hanno preso di mira il mercato settimanale dedicato agli stranieri, con saccheggi e distruzione di numerosi negozi. A Tripoli, centinaia di persone sono scese in piazza chiedendo l’espulsione dei migranti e il divieto di integrarli nella pubblica amministrazione.
Testimonianze raccolte riferiscono che i rifugiati sudanesi vivono ormai da giorni nel timore, tra appelli sempre più pressanti alla loro espulsione, casi crescenti di bullismo contro bambini sudanesi nelle scuole e campagne di incitamento sui social network.
Rischio nuove partenze verso Italia e Grecia
Osservatori del dossier sudanese temono che molti sudanesi presenti in Libia tentino la traversata del Mediterraneo verso l’Europa — soprattutto Italia e Grecia — per sfuggire al clima ostile a Misurata e Tripoli.
Un rapporto di CORE Libya pubblicato ad agosto ha stimato l’arrivo in Italia di circa 1.339 sudanesi provenienti dalla Libia nei primi sette mesi dell’anno, a fronte di 3.657 arrivi in Grecia, indicando un aumento dei tentativi di migrazione nonostante rischi e arresti.
A luglio, l’UNHCR ha previsto che il numero dei rifugiati sudanesi in Libia potrebbe superare le 650 mila persone entro fine anno, se la guerra civile in Sudan continuerà — più del doppio dei 313 mila registrati attualmente. Dal aprile 2023 il flusso quotidiano di rifugiati, soprattutto dal Darfur, che entra dalla frontiera meridionale libica oscillerebbe tra 300 e 600 persone al giorno, mentre crescono i bisogni umanitari nelle città ospitanti (acqua, cibo, alloggi e sanità).
Pressioni e sanzioni internazionali
Nelle ultime settimane sono aumentati gli appelli europei a fermare la guerra e ad agevolare l’accesso degli aiuti nelle aree colpite dalla fame. L’Unione Europea ha prorogato di un anno, fino al 10 ottobre 2026, le sanzioni contro il Sudan — congelamento dei beni e divieti di viaggio — che colpiscono individui e entità, tra cui aziende coinvolte nella produzione di armi e veicoli per l’esercito sudanese.
Intervenendo all’ONU a New York lo scorso mese, il premier irlandese Micheál Martin ha chiesto di estendere la giurisdizione della Corte penale internazionale (CPI) a tutto il Sudan per perseguire i crimini di guerra, sollecitando un cessate il fuoco immediato.
Parallelamente, l’organizzazione “Sudanese Alliance for Rights” ha presentato il 25 settembre una denuncia alla CPI contro l’esercito sudanese e l’autorità di Port Sudan, chiedendo indagini su presunti responsabili di violazioni, tra cui il comandante Abdel Fattah al-Burhan, il suo vice Yasser al-Atta, Shams al-Din Kabbashi e il generale in congedo al-Tahir Mohamed (aeronautica). L’organizzazione ha inoltre depositato un ricorso presso la Commissione africana dei diritti dell’uomo e dei popoli su presunto uso di armi chimiche, e inviato una lettera all’OPAC per sollecitare indagini e la sospensione della membership dell’autorità di Port Sudan.
Queste iniziative si inseriscono nel solco delle pressioni europee: secondo Human Rights Watch, l’UE ha già sanzionato esponenti dell’aeronautica sudanese per attacchi su aree civili a Nyala (Sud Darfur) e in altri siti della regione.
La “road map” della Quartetto e le reazioni
A febbraio l’Italia ha ospitato un incontro della Quartetto internazionale (Arabia Saudita, Stati Uniti, Egitto, Emirati) per un cessate il fuoco e un percorso politico inclusivo. In settembre, la Quartetto ha annunciato una road map che prevede, tra l’altro, l’esclusione della Fratellanza Musulmana dal quadro politico del Sudan post-bellico e una tregua di tre mesi per far entrare gli aiuti nelle aree in carestia. L’esercito e i suoi alleati islamisti hanno risposto con mosse contrarie per consolidare il controllo sul terreno.
La ministra degli Esteri britannica Yvette Cooper ha accolto positivamente gli sforzi della Quartetto, definendo “insopportabile” la sofferenza del popolo sudanese e ribadendo che il futuro del Paese spetta ai suoi cittadini, non a poteri di fatto a Port Sudan.
Misure statunitensi e denunce sull’uso di armi chimiche
In parallelo, gli Stati Uniti hanno sanzionato la brigata “Al-Bara bin Malik”, collegata alle storiche Forze di Difesa Popolare e associata al precedente regime di Omar al-Bashir, accusandola di arresti arbitrari, torture ed esecuzioni sommarie, e di ostacolare una soluzione del conflitto. La brigata e il movimento islamico negano le accuse.
A giugno Washington ha fatto entrare in vigore sanzioni annuali contro il Sudan dopo aver affermato, a maggio, di aver raccolto prove sull’uso di armi chimiche da parte dell’esercito nel 2024 contro le Forze di Coalizione Tasis. Il 16 gennaio, il New York Times aveva già riportato — citando quattro alti funzionari statunitensi — due episodi di impiego di agenti chimici in aree remote. Un rapporto del gruppo di avvocati Emergency Lawyers ha segnalato effetti compatibili con agenti chimici a Gebel Moya e nell’Est di Sennar, alimentando il panico tra i civili.
Se le tensioni in Libia contro i migranti persisteranno e la guerra in Sudan non accennerà a diminuire, gli esperti temono nuove ondate di partenze verso l’Europa lungo la rotta del Mediterraneo centrale e orientale. Un quadro che richiede, secondo ONG e istituzioni internazionali, tregue verificate, corridoi umanitari e protezioni per i rifugiati, oltre a misure di integrazione e sicurezza nelle comunità ospitanti libiche per scongiurare ulteriori violenze e nuovi naufragi.