Giochi da bar anni 90: quali erano i più amati e dove si trovavano

Ma quanto erano fighi gli anni '90! Entravi in un bar qualsiasi e sentivi subito quel rumore - le monete da 200 lire che cadevano nel cassettino, i bip degli arcade, e sempre qualcuno che urlava "Hado...

16 luglio 2025 13:15
Giochi da bar anni 90: quali erano i più amati e dove si trovavano -
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Ma quanto erano fighi gli anni '90! Entravi in un bar qualsiasi e sentivi subito quel rumore - le monete da 200 lire che cadevano nel cassettino, i bip degli arcade, e sempre qualcuno che urlava "Hadoken!" dall'angolo dove stava il cabinato di Street Fighter. Dio, che tempi.

Allora non avevamo PlayStation in casa, internet era roba da film di fantascienza, e se volevi giocare dovevi alzarti dal divano, riempirti le tasche di monete e andare al bar. Oggi tutto è diverso - la gente si butta sui migliori bonus di benvenuto dei casinò online, cerca quella botta di adrenalina che una volta ti dava mettere la moneta e sentire partire la musica. L'emozione però è sempre quella.

A ripensarci, i numeri erano assurdi. In Italia c'erano oltre 400.000 macchinette sparse tra bar, tabaccherie e sale giochi. Fatturato? Più di 2 miliardi di lire all'anno. Una montagna di soldi per quei tempi. Ma non era questione di business - quei giochi avevano creato proprio una cultura nuova, un modo di stare insieme che adesso mi sa che abbiamo perso.

I miti che non si dimenticano

Street Fighter II

Chi non l'ha mai toccato? Uscì nel '91 e subito divenne il padrone dei bar. Mio cugino si faceva delle sessioni assurde con Ryu, ripeteva quella mossa "giù, diagonale, avanti + pugno" finché non gli usciva perfetta la Hadoken. Le sfide poi... si creavano delle file infinite. C'era sempre il solito fenomeno che dominava la macchina per ore, e tu con la tua moneta da 200 lire aspettavi che qualcuno lo battesse.

I personaggi erano diventati delle vere icone: Chun-Li con le sue gambe impossibili, Ken con i capelli biondi che sembravano una parrucca, Blanka verde che faceva quelle scariche elettriche assurde. Ognuno aveva il suo fighter preferito e sviluppava le proprie strategie. Era bello perché non serviva essere dei fenomeni - anche il più imbranato poteva vincere qualche match se imparava due-tre mosse base.

Metal Slug 

Metal Slug invece era tutto un altro mondo. Quello sparatutto della SNK aveva dei disegni fatti così bene che sembrava di guardare un cartone animato. I soldatini paffuti, le esplosioni esagerate, quel senso dell'umorismo che ti strappava sempre un sorriso. E poi potevi giocare in due - era fantastico fare squadra con l'amico per superare i livelli più difficili. Quando uno dei due moriva, l'altro doveva vedersela da solo finché non arrivava il rinforzo.

Puzzle Bobble 

Ecco, questo era il gioco della nonna. No, davvero. Mia nonna Giuseppina, che non aveva mai toccato un videogioco in vita sua, si era fissata con quelle bolle colorate. "Fammene una partita", diceva sempre quando andavamo al bar dopo la spesa. E poi stava lì mezz'ora a sparare bolle verdi con quelle rosa, più concentrata di un chirurgo. Era geniale nella sua semplicità: tre bolle dello stesso colore vicine e scoppiavano. Facile da imparare, impossibile da lasciare.

I flipper: quando il gioco era anche arte

Ma i veri re dei bar erano i flipper. Quelli sì che erano macchine! Non semplici cabinati con uno schermo, ma vere e proprie opere d'arte meccaniche. "Medieval Madness", "The Twilight Zone", "Indiana Jones" - ogni flipper raccontava una storia diversa, aveva le sue regole, i suoi segreti.

Mio zio Pino era un mago del flipper. Aveva delle mani che sembravano fatte apposta per quelle palette. Ti spiegava che non dovevi mai dare botte troppo forti alla macchina (se no scattava il "tilt" e perdevi la partita), che dovevi "sentire" la pallina, accompagnarla, non combatterla. E poi c'erano quelle tecniche misteriose: il "nudging" per dare una spintina delicata, il "trapping" per bloccare la pallina e prendere la mira.

La cosa più bella era stare a guardare quando giocava uno bravo. La pallina che rimbalzava tra i bumper, le luci che lampeggiavano, i suoni che si sovrapponevano creando una specie di sinfonia metallica. E tutti lì intorno, in silenzio, a seguire ogni movimento. Quando riusciva a fare multiball (più palline in gioco contemporaneamente), partivano gli applausi come al cinema.

I templi del divertimento

Il bar di quartiere era il posto più democratico. Ce n'erano uno o due cabinati, di solito vicino al bancone o in fondo alla sala. Peppino, il barista del mio paese, conosceva tutti i record a memoria. "Il punteggio più alto a Street Fighter l'ha fatto Marco, quello della macelleria. 847.000 punti!" E poi organizzava dei tornei improvvisati, soprattutto la domenica pomeriggio. Vinceva sempre lo stesso, ma ci si divertiva un mondo.

Le sale giochi erano un'altra storia. Appena entravi ti colpiva quell'odore particolare - un mix di fumo di sigaretta, sudore e... non so, elettricità? C'erano decine di cabinati, tutti con le loro lucine colorate che lampeggiavano. Era rumoroso, caotico, ma aveva un fascino incredibile. Ricordo quella di Via del Corso a Roma, dove andavo quando venivo su con i miei: due piani di puro divertimento, dove potevi trovare sia i giochi più nuovi che i vecchi classici.

E d'estate? D'estate c'erano gli stabilimenti balneari. Dopo una mattinata di mare, con la sabbia ancora tra le dita dei piedi, ti infilavi sotto la tettoia dove c'erano i giochi. Era perfetto: al fresco, con la brezza marina che entrava dalle finestre aperte, e tu lì a sfidarti a Metal Slug con quello conosciuto il giorno prima. Molte amicizie estive nascevano proprio davanti a quei cabinati.

Quello che ci hanno lasciato

Adesso che ci penso, quei giochi ci hanno insegnato un sacco di cose. La pazienza, per esempio. Se perdevi, dovevi aspettare il tuo turno per la rivincita. Non c'era il "restart" immediato come oggi. Ti facevi da parte, magari un po' arrabbiato, e aspettavi. E intanto guardavi gli altri, imparavi, ti preparavi per la prossima volta.

E poi la sportività. Quando perdevi, stringevi la mano al vincitore. Quando vincevi, non esageravi con la festa. Era un codice non scritto, ma tutti lo rispettavano. Anche i bulli del quartiere, quando erano davanti al cabinato, diventavano più umani.

Oggi mio figlio gioca con la PlayStation, si collega online, scarica giochi da internet. È tutto più facile, più veloce, più... non so, immediato. Ma quando gli racconto di quei tempi, quando gli descrivo l'emozione di battere il "campione" del bar o di completare un gioco difficile con la fila di gente che ti guardava, vedo nei suoi occhi quella curiosità, quel rimpianto per qualcosa che non ha mai vissuto.

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